sabato 17 gennaio 2015

Dal 19 gennaio nelle librerie “Citytelling” di Stefano Rolando.

di Maurizio Trezzi

A partire dal 19 gennaio, è in distribuzione nel circuito delle librerie italiane il nuovo libro di Stefano Rolando (professore di Teoria e tecniche della comunicazione all’Università Iulm e presidente del Comitato Brand Milano) Citytelling – Raccontare le identità urbane. Il caso Milano, edito da EGEA con la prefazione di Gianluca Vago, rettore dell’Università degli Studi di Milano e coordinatore dei rettori della rete universitaria milanese e lombarda. Libro che ha avuto il 17 dicembre una presentazione in anteprima alla Triennale di Milano e che sarà oggetto di presentazioni e dibattiti in varie città italiane nei prossimi mesi. Il Brand pubblico è una delle nuove frontiere della comunicazione pubblica che ripone, in maniera sostanziale il tema della strategia nell'identificazione dei progetti di comunicazione per i territori. 




Quale è il radicamento disciplinare della materia proposto in questo nuovo testo?
In verità è un percorso in terra di frontiera. Senza la storia, l’economia, le scienze sociali (antropologia in testa), le scienze urbane, le scienze politiche insieme ad un approccio integrato all’interpretazione dell’evoluzione culturale, non si afferra la complessità identitaria di un territorio. Che è la materia in cui si colloca l’approccio qui esposto. Ma lo specifico è poi contenuto in un ambito che va sotto il nome di comunicazione narrativa. Che nelle strategie comunicative pubbliche è fortemente connesso ad una merce rara ma indispensabile, che potremmo chiamare la governance della visione. Da qui le correlate della materia, tra cui il marketing territoriale che erroneamente viene considerato una premessa, mentre secondo me è parte di rilevanti conseguenze.

Quindi, per riassumere, l’approccio al branding pubblico può essere considerato una parte evolutiva della comunicazione pubblica?
Per riassumere, direi certamente di sì.

Cosa implica tutto questo, nel percorso di formazione dei comunicatori pubblici?
Direi che non lo modifica ma: “riconduce”. Riconduce, cioè, alle componenti strategiche della disciplina. Sottraendo la materia al tran-tran in cui molta esperienza pratica l’ha ridotta. Se si limita la materia a dare visibilità (che poi finisce con il promuovere più le persone che i problemi) è chiaro che tutta questa strumentazione serve a poco. Ma se – per gestire la condivisione collettiva dei cambiamenti – ci si preoccupa di verificare anche l’evoluzione dei processi identitari, di cogliere il senso del patrimonio simbolico collettivo connesso (in parte caduco, in parte vitale, in parte trasformato), di trovare i modi di incentivare il dibattito pubblico al riguardo e infine di dar forma ai tanti modi di narrare quel patrimonio, ecco che si coglie la novità. Potremmo dire che la maggiore novità è riportare la comunicazione pubblica a occuparsi di processi (storia e cambiamento) e non solo di prodotti (norme e regole).

Ma la parola brand ha un suo invalso: cioè stringere la questione ad un segno rappresentativo. In questo libro non si dà grande peso a questo aspetto?
Innanzi tutto non è vero che non si dà peso a questo aspetto. Anzi – sia nel testo che nella documentazione che il lettore troverà gratuitamente in rete utilizzando il codice di accesso stampato in fondo al libro – si vedrà che il patrimonio iconico che sintetizza la “rappresentazione simbolica” ha il suo peso e il suo ruolo. Dico solo che – come per le aziende anche per i territori – la materia richiede importanti correlati.

Puoi fare degli esempi, trattati nel libro?
Dedico la prima metà del libro alle questioni generali del branding pubblico. E la seconda metà a raccontare il caso Milano, che è un cantiere aperto a fronte di tante cose che a partire da questo 2015 segnalano forti cambiamenti.  Proprio pensando a Milano e alle trasformazioni della narrazione della città dal precedente Expo (1906) a quello che si apre nel maggio del 2015 si può vedere che i segni del brand design sono solo la risultante di un conflitto, spesso molto duro, tra le determinazioni di classi dirigenti e dello stesso popolo rispetto al disegno meno razionale della storia che si abbatte, nel bene e nel male, su una città cambiando molto spesso la direzione di marcia (nel caso di Milano almeno dieci volte nel secolo preso in considerazione).

La prefazione del prof. Vago segnala la forte implicazione dell’internazionalizzazione rispetto al tema.
Certamente, nel caso Milano è evidente che il carattere finora un po’ separato dei due processi identitari che hanno caratterizzato l’evoluzione del ‘900 – quello localistico e quello globalizzato – sono destinati a una fusione, in senso appunto glocale, con mutue conseguenze. E questo è il prodotto di quella visione competitiva che anche l’avvio del cantiere di costruzione della città metropolitana segnala. Il biglietto da visita della città che passa da borgo di poco più di un milione di abitanti al carattere (già assunto da molte città nel mondo) di metropoli (per Milano sfiorando i 5 milioni di abitanti).

Cosa significa un brand glocale?
Nel caso della prefazione del prof. Vago (che guarda alla complessità delle competenze della rete universitaria milanese) vorrei aggiungere il senso del significato multidisciplinare dell’approccio, che è quello adottato da tutte le grandi (e non solo grandi, ma anche innovative) città che hanno messo mano alla rigenerazione della loro narrativa. E poi vorrei fare riferimento al colloquio – che separa le due parti del libro – con Piero Bassetti, nel corso del quale le riflessioni hanno i piedi ben piantati nella tradizione, ma lo sguardo è verso il modo di stare allineati (anche interpretando correttamente il grande messaggio di contenuto di Expo) alle sfide planetarie.


giovedì 11 settembre 2014

All’insegna di Europa e brand pubblico. Il dopo-estate della comunicazione pubblica. Colloquio con Stefano Rolando


di Maurizio Trezzi 

E’ imminente la convocazione a Roma, nel quadro del semestre di presidenza italiana UE, della conferenza “The Promise of the EU”, un evento di spicco che governo italiano e Commissione UE dedicano al tema della comunicazione a tutto tondo: ricerca d’opinione, comunicazione diretta, socialnetwork e naturalmente ruolo dei media e in particolare della rete delle tv pubbliche (EBU, organismo coordinate delle tv pubbliche è tra i partner). Il programma (Maxxi, Roma, 12 e 13 settembre) è annunciato in rete al link http://www.politicheeuropee.it/file_download/2390
I membri del governo italiano Sandro Gozi (Affari europei) e Antonello Giacomelli (Comunicazioni) apriranno e chiuderanno i lavori insieme a Gregory Paulger (dg Comunicazione della Commissione), Silvia Costa (presidente della Commissione cultura e comunicazione del Parlamento europeo) e Anna Maria Tarantola (presidente della Rai) con panel che comprendono tra moderatori e rapprteurs nomi importanti: da Jean Paul Fitoussi a Luigi Gubitosi, da Enrico Giovannini a Jean-Paul Philippot (presidente EBU) A presiedere i lavori della conferenza – introducendo apertura e conclusioni – il prof. Stefano Rolando, docente allo Iulm a Milano, per dieci anni direttore generale dell’informazione alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e tuttora presidente del Club of Venice (coordinamento dei responsabili della comunicazione di governi e istituzioni UE, con segretariato presso il Consiglio europeo). Stefano Rolando è anche il presidente del Comitato Brand Milano e dedica al tema del branding pubblico nuovi orientamenti di ricerca nella comunicazione pubblica.
Gli abbiamo dunque rivolto alcune domande

Si apre con la conferenza di Roma del 12 e del 13 settembre una riflessione tra istituzioni e operatori media e comunicazione su identità e immagine dell'Unione Europea. Cosa c’è di concreto negli obiettivi e non del “già visto” in questo genere di convegni?
Buona domanda. In realtà da rivolgere a chi governa, in Italia e – tra poco – in Europa. E’ vero che il punto di svolta si è avuto con il discorso di avvio del semestre di presidenza italiano che Renzi ha fatto a Strasburgo. Il piano degli eventi consegnato per iscritto;  il tema della riqualificazione partecipativa tra Europa e popoli centrato con comunicatività sugli equilibri oggi (non solo sul passato) tra valori e interessi. Finché non c’è nuova politica, non ci sarà nemmeno nuova comunicazione in Europa. E per fare nuova politica il nodo del rapporto tra le “cose in comune” (l’unione) e le “cose regolate” (il mercato) ha bisogno di una rifondazione. Difficile da fare a 28, ma non impossibile perché il mondo spinge a darci una regolata. 

E quindi questa conferenza…

…e quindi questa conferenza punta a fare un inventario di luci e ombre per vedere se si schiudono porte. Da un lato capire l’opinione pubblica (in apertura si presenta il nuovo rapporto di Eurobarometro – che a mio avviso ha dei limiti – ma è anche una fotografia abbastanza attendibile), dall’altra parte si tocca il polso degli operatori dei media per capire come anche nell’innovazione delle comunicazioni l’Europa possa conquistare un nuovo coinvolgimento popolare.

Quali sono le ombre che emergono?
Non entro sul Rapporto che è embargato fino a sabato. Ma sull’evidenza - che proverò a dire in poche battute in apertura – che dopo le due magiche parole Pace e Progetto la parola che ha segnato l’ultima fase della vicenda europea (sempre parole con la P) è la parola Paura. Da questo cono d’ambra si esce non con una trovata comunicativa, ma con una riprogettazione che connetta politica, cultura, economia e informazione. Che gli stati membri pensino di conferire agli affari europei il meglio della propria classe dirigente è un primo passo (qualcuno lo fa, altri non pare). E con attenzione seria non solo all’Europa politica ma anche a quella dei manager e dei tecnici.

I fattori di spinta al cambiamento quali sono?
Lo sforzo congiunto per l’uscita dalla crisi e la politica estera. Cioè la rimessa in convergenza degli interessi attorno all’economia reale e la capacità di avere ruolo di fronte alle aree di crisi che da più parte lambiscono i confini dell’Europa chiedendo il peso in campo di un soggetto politico responsabile del peacekeeping.

Veniamo alla comunicazione pubblica. Dopo l’uscita di Comunicazione, poteri e cittadini (Egea, gennaio 2014)  era annunciato nell’anno un secondo libro di ripensamento0 della materia.  Qualche notizia?
Eccome, il secondo libro – programmato dal 2013 con Egea – è scritto e consegnato. Parlandone “alla milanese” (perché una parte è dedicata al caso Milano) spero che sia in libreria prima di Sant’Ambrogio. Titolo Citytelling, cioè raccontare le città. La prima parte è un approccio generale al branding pubblico, su cui lavoro da tempo dicendo, da tempo, che qui si sviluppa un nuovo approdo della comunicazione pubblica impegnata a raccontare territori e paesi sotto il profilo del patrimonio simbolico collettivo, ovvero nel rapporto tra identità e vocazioni. La seconda parte presenta in un primo bilancio il lavoro del Comitato Brand Milano attorno alla città. Questa seconda parte è preceduta da un fitto colloquio con Piero Bassetti sulle trasformazioni della città, che naturalmente spingono per un nuovo racconto, dunque per un nuovo citytelling di Milano.

Anche qui, quali sono le più importanti spinte?
Certamente Expo è un’occasione, cioè una superficie lunga e ampia di racconto possibile, agendo anche su uno spazio strutturale di questo tipo di eventi che, a differenza degli eventi sportivi mondiali brevi,  risultano lunghi ma poco mediatizzati e quindi lasciano spazi anche ad altri contenuti. Poi la costruzione della città metropolitana, che non cambia solo dimensioni ma anche sostanza identitaria. E infine (lo dico perché Bassetti ne parla nel testo e ne parla Gianluca Vago, coordinatore dei rettori della Lombardia, che scrive la prefazione) il grande tema non solo del passaggio da locale a globale ma della convergenza e dell’integrazione tra queste due dinamiche che appartengono alla città di Milano.

Nelle vicende del Comitato Brand Milano ci sono stati dibattiti un po’ oziosi sul concetto di ”brand”. Superati?
Certamente, il mondo del design reagisce alla parola considerandola cosa propria, cioè confinata dentro la costruzione di marchi. E’ comprensibile. Ma la materia ha piuttosto preso una diversa ampiezza dentro ciò che disciplinarmente si chiama “comunicazione narrativa”. Ora si sa che lo spazio è davvero multidisciplinare. Che tante voci sono preziose e naturalmente anche quella dei creativi che hanno potere di profondità e al tempo stesso di sintesi.

Un approccio – per riprendere il tema di prima – oggi largamente radicato in Europa?
Diciamo con molti casi efficaci legati proprio alla trasformazione delle città e all’importanza dell’attrattività. Presenterò il caso Milano – che si è sviluppato grazie alle determinazioni del sindaco Giuliano Pisapia –  alla conferenza Europcom, promossa dal Comitato Regioni e Città della UE, a Bruxelles il 15 ottobre.





mercoledì 25 giugno 2014

Eupalla e il Gattopardo

Spengo la tv per non sentire i soliti commenti. E’ appena finita la partita Italia-Uruguay. Sul calcio italiano si è abbattuta l’amara sentenza: eliminati al primo turno del mondiale brasiliano. Qualche ora dopo un sonno profondo (nessun incubo ci mancherebbe), accendo la radio e  mi collego al web. Ed eccomi sommerso dai commenti e dalle morali sulla disfatta, sui responsabili, sulle dimissioni del ct e del presidente federale, sul fallimento del calcio come specchio del Paese che non riparte. Fiumi di parole, spesso inutili e sempre poco obiettive.
Vedo partite di calcio da quando avevo tre mesi. Negli ultimi anni sempre meno, causa pochezza del valore tecnico e morale di questo sport capace, indirettamente, di far morire un ragazzo napoletano, Ciro Esposito, che stava andando in uno stadio. Le sconfitte dell’Italia contro Costarica e Uruguay sono la prova del fallimento del calcio italiano e dei suoi allenatori, sotto il profilo tecnico. Quattro anni non sono bastati, dopo la figuraccia - peggiore rispetto a quella di ieri – di Sud Africa 2010 con Lippi in panchina, per far cambiare registro agli allenatori e ai geni del pallone. Quelli che commentano partite letargiche, soloni del calcio che vivono di esso e quindi non possono, e non vogliono, ammettere l’incapacità di questo sport (????) di rinnovarsi, cambiare registro, innovarsi.

Tecnicamente il calcio è un gioco molto semplice. Questo perché l’alto numero di giocatori si distribuisce su una superficie molto grande e quindi, come nel caso del rugby, le dinamiche i movimenti e gli schemi hanno spazio a sufficienza per essere messi in pratica. L’avvento della difesa a zona, mutuata dalla pallacanestro, impone, come sul parquet, un gioco che preveda veloci ribaltamenti del fronte offensivo e quindi penetrazioni dalla fasce laterali per superare il muro difensivo. Non è cosi complicato, in giro per il mondo lo fanno tutti. E invece in Italia il modo di giocare a calcio, imposto da allenatori insufficienti - dalla serie A ai settori giovanili - prevede 99 volte su 100 il passaggio orizzontale, il possesso palla (peggio di quello che faceva Liedholm al Milan) e soprattutto il passaggio arretrato ogni volta che l’esterno arriva sulla tre quarti, senza che vi sia il taglio sulla fascia della seconda punta a dettare il triangolo, quello che nel basket si chiama “dai e vai”. Detto così sembra complesso ma basta riguardare la partita di ieri per vedere come l’Uruguay nelle, poche, volte in cui ha avuto il possesso palla lo abbia fatto. Basta vedere come ha giocato quest’anno l’Atletico Madrid o come si muovono, senza palla, i giocatori della Colombia e delle altre nazioni sudamericane. Ma l’Italia no. Passaggi arretrati, tocchi ravvicinati e cross inutili dalla tre quarti. E in quattro anni non è cambiato niente. Al Mondiale Prandelli, ct dimissionario, è arrivato dopo aver provato all’Europeo, a modificare questo obsoleto e stantio modo di giocare. Purtroppo non aiutato dagli altri allenatori italiani che in campionato hanno continuato a far giocare le squadre nello stesso modo e alla stessa velocità: soporifera. E infatti in Champions League non si fa risultato da anni. Altri ritmi, altre prestazioni, altre tattiche. E nessuno, compresi i commentatori delle tv a pagamento, ha mai avuto il coraggio di affermare, se non a giochi fatti dopo la disfatta di ieri, il fallimento di questo calcio. Sport noioso e permeato da entourage di faccendieri e furbetti del quartierino che vivono alle spalle di milionari alla ricerca del loro posto sotto i riflettori. Mi è capitato anni fa di partecipare a una riunione a porte chiuse della Lega Calcio, allora presieduta da Franco Carraro. Il livello medio degli interventi non era diverso da quello del bar di via Pola a pochi metri dalla sede della Lega al Milano. Congiuntivi sbagliati, consecutio dimenticate, atmosfera da riunione condominiale. E questo è il calcio business italiano? E nessuno vuole cambiare. Quando si guarda al calcio sembra di sentire parlare dell’Italia, della politica, del sistema paese e non di quello che succede su un prato verde in nome della dea Eupalla. E allora, forse, il calcio italiano è lo specchio della scarsa propensione al cambiamento di questa Italia? Certamente si. Vince sempre il Gattopoardo. Siamo un Paese vecchio, poco incline alle modifiche. Per cambiare occorre rischiare, perdere le posizioni di privilegio iniziali per arrivare ad avere benessere per tutti, guardando alla collettività e non solo al personale. Cambiare significa scontentare qualcuno per il bene comune, un concetto molto poco “democristiano” e del “volemose bene”, uno dei fondamenti dell’etica italiana. Cambiare vuol dire anche andare sulla fascia e crossare, rischiando il dribbling per cercare il gol. Ma questa Italia, oggi, tutto questo non lo sa fare. 

martedì 1 aprile 2014

Un Expo universalmente accessibile


Riporto nel mio blog l'articolo pubblicato oggi 2 aprile 2014 su Arcipelago Milano.

di Maurizio Trezzi
La Casa dei Diritti di Milano ha ospitato nelle ultime due settimane, altrettanti incontri sul tema dell’accessibilità della città in occasione del prossimo Expo 2015. A 14 mesi dall’evento la questione rischiava infatti di restare confinata nel perimetro (fisicamente ristretto) dell’esposizione nella zona nord-ovest di Milano e nella visione (culturalmente ristretta) della mera applicazione di normative su altezze, pendenze, elevatori e montascale.
Per fare un primo passo avanti il 18 marzo scorso, su proposta del Consigliere regionale Umberto Ambrosoli, l’assessore alle Politiche Sociali del Comune di Milano Pierfrancesco Majorino, ha riunito nell’incontro: “Expo 2015: esposizione universalmente accessibile”, i diversi attori di un sistema di accessibilità metropolitano che riguarderà i visitatori di Expo ma anche Milano e la Lombardia. Il secondo momento di confronto si è tenuto il 31 marzo quando, per la prima volta, si è riunita la “task-force” antibarriere per Expo 2015, istituita proprio dall’assessorato alle Politiche sociali del Comune di Milano. Secondo le intenzioni di Majorino, il gruppo di lavoro si occuperà del processo per garantire l’accessibilità alla città e ai luoghi dell’Esposizione dei cittadini e dei turisti con disabilità motorie e sensoriali.
Quattro anni fa a Shangai - con 73 milioni di visitatori - furono 1.5 milioni i turisti, in gran parte cinesi e molti con disabilità, che visitarono il padiglione “Lives and  Sunshine”, il primo nella storia di Expo dedicato alle persone disabili. Da questo dato è possibile stimare in almeno 250.000 il numero di visitatori disabili (motori, sensoriali, cognitivi) presenti a Milano nei sei mesi dell’Esposizione Universale. Persone, turisti, consumatori, che porteranno in città aspettative, la voglia di essere protagonisti di un evento planetario e anche le loro esigenze in termini di mobilità e accessibilità. Un tema, quest’ultimo, certamente presente nelle agende e nei programmi di chi sta organizzando l’evento ma che ora richiede un cambio di passo da parte delle Istituzioni che coordinano il progetto di attrattività della città e del suo territorio. Come emerso nei due incontri il piano di accessibilità resta per ora confinato al rispetto di norme e prescrizioni e non assume, come dovrebbe, il ruolo di progetto per un reale cambiamento di visione e di cultura. Rendere accessibile un evento, una città e il suo territorio, non è infatti una questione da burocrati, geometri o architetti. E’ un tema assai più vasto che abbraccia visioni multidisciplinari e sociologiche e deve prevedere, necessariamente, un ampio coinvolgimento delle Associazioni e delle persone disabili, di chi si occupa di comunicazione e promozione, di tutto coloro i quali sono chiamati a far crescere il brand di una città. I numeri, freddi e spesso solo enunciati, degli ingressi dedicati alle persone disabili, delle stazioni della metropolitana accessibili - a volte solo sulla carta - dei padiglioni senza barriere, non rendono giustizia alla richiesta delle persone disabili di un cambiamento di paradigma.

Un nuovo approccio che metta al centro un concetto allargato di accessibilità e segni una ridefinizione degli spazi urbani “per tutti” e vada, alla fine del processo, a vantaggio dell’intera comunità e di chi la fruisce e non solo delle persone disabili. Per questo occorre, come recepito dall’assessorato di Majorino e, si spera prima possibile, anche da Regione Lombardia, farsi carico del tema e promuovere la cabina di regia che lo governi. Non solo in occasione di Expo, qui visto come punto di partenza, ma più in generale, rispetto all’accessibilità e alla qualità futura dell’offerta turistica per tutti a Milano e in Lombardia. Il  tavolo convocato vede svolgere dalle Associazioni delle persone disabili  un ruolo da protagoniste, non rivendicativo ma propositivo, di certificatori di un’accessibilità valutata e testata da chi si muove in carrozzina, è non vedente o sordo o ha disabilità cognitive. Questo lavoro, che segue la recente approvazione del Piano per l’eliminazione delle barriere architettoniche da parte della Giunta Pisapia, potrà, in tempi brevi e certi, creare una lista di priorità da affrontare con la massima solerzia per rendere Milano e la città metropolitana realmente accessibile. E per creare una banca dati a favore della realizzazione di guide turistiche – declinate grazie alle tecnologie digitali anche ai device portatili – realmente utili ai turisti disabili che potranno, a loro volta, migliorarle e integrarle costantemente. Un approccio capace di superare la logica dello sportello e dell’accompagnamento e abbracci, finalmente, concetti come quello il “Design for All”, della comunicazione e della partecipazione, che possano fare di Milano una città universalmente accessibile, da Expo in poi e per sempre.

mercoledì 19 marzo 2014



“Mobilità elettrica, scenari e impatti sul sistema metropolitano”
Giovedì, 20 marzo 2014 - Ore 10.00
Sala del Grechetto (Biblioteca Sormani) corso di Porta Vittoria, 6

La monografia di RSE: “E Muovitì! Mobilità elettrica a sistema“, recentemente pubblicata nella collana RSEView, rappresenta un’interessante fonte di dati e spunti per affrontare il tema della mobilità elettrica e del suo impatto sul sistema energetico e su quello dei trasporti cittadini.
In particolare a Milano, dove la diffusione del veicolo elettrico e dei sistemi di carsharing, insieme ai provvedimenti messi in atto dall’Amministrazione stanno velocemente modificando gli scenari dei sistemi di mobilità nell’area metropolitana.

Interventi di:
Pierfrancesco Maran – Assessore alla Mobilità e Ambiente Comune di Milano
Stefano Besseghini  - Amministratore Delegato RSE – Ricerca sul Sistema Energetico
Maria Berrini – Presidente AMAT – Agenzia Mobilità Ambiente Territorio
Pietro Menga – Presidente CIVES
Michele De Nigris – Direttore Dipartimento TTD – RSE

Alessio Torelli – direttore Retail e Smart Mobility ENI

lunedì 17 marzo 2014

“Expo 2015: esposizione universalmente accessibile”


Martedì 18 marzo 2014 – Ore 17
Casa dei Diritti, via E.De Amicis, 10 Milano

Expo2015 è un’occasione straordinaria per poter allineare Milano e la Lombardia agli standard internazionali di accessibilità e fruibilità dei propri territori e delle proprie strutture ricettive per le persone disabili.
Per questo occorre definire, di concerto con le Amministrazioni Pubbliche e i soggetti competenti, un progetto per rendere Milano ed Expo, una città e un’esposizione accessibile universalmente.

Ne parleranno:
Pierfrancesco Majorino – Assessore alle Politiche Sociali e Cultura della salute del Comune di Milano
Giovanni Daverio – Direttore Generale Assessorato alla Famiglia, Solidarietà sociale e Volontariato della Regione Lombardia
Umberto Ambrosoli – Consigliere Regione Lombardia
Carlo Borghetti - Consigliere Regione Lombardia
Guido Arnone  - EXPO 2015 S.p.A.

E anche:
Isabella Menichini – Comune di Milano
Franco Bomprezzi  - Ledha
Rodolfo Masto - UIC
Raffaele Boniauti – ACLI
Sergio Canzano - ATM
Alfredo Zini – EBNT
Marcello Coppa BIRCLE
Roberto Vitali - Village for all – V4A 


Modera: Maurizio Trezzi, Osservatorio Nazionale su Comunicazione e Disabilità - Università IULM

lunedì 17 febbraio 2014

Stefano Rolando, Comunicazione, poteri e cittadini – Tra propaganda e partecipazione ,
EGEA, gennaio 2014
Dieci domande all’autore
 a cura di Maurizio Trezzi



Tre parole in questo titolo: comunicazione, poteri, cittadini. Quale è il nesso fra di loro?
Qualcuno ha fatto notare che l’illustrazione in copertina sarebbe frustrante: peserebbe di più un solo uomo di potere rispetto a (simbolicamente) tutti i cittadini. Ma l’editor del libro ha detto: no, volevamo dare la tendenzialità opposta, dovrebbe pesare più un solo cittadino che (simbolicamente) tutti le persone di potere. Detta così ammetto però che il rischio del luogo comune o della soavità teorica si affacci. Ma il tema, riferito alla comunicazione,  è questo. In un campo cruciale e delicato la sovranità è davvero del popolo?  E’ stato quindi necessario fare un po’ di storia e recuperare almeno la controversa lezione del ’900, che – tra istituzioni e cittadini -  ha prodotto lezioni pesantissime di propaganda ma anche esperienze di liberazione, di affrancamento e di partecipazione.


Il  sottotitolo invece sembra sintetizzare un percorso storico: tra propaganda e partecipazione. E’ così?
Non nel senso che molti credono, cioè che la prima metà del secolo scorso abbia fatto un monumento alla propaganda (fascismo, nazismo, comunismo) e la seconda metà del secolo abbia visto la riscossa dei cittadini. Il senso della lezione storica oggi mi appare quello di un complesso e quindi anche ambiguo intreccio di due approcci che convivono anche dentro i regimi democratici. Obbligando la teoria a definire meglio e gli utenti a farsi più critici. Certo la cultura della propaganda contiene anche un approccio seduttivo che deve mantenere un pizzico di ruolo per mantenere la rotta del dialogo, dell’attenzione, del passaggio nella giungla mediatica. Ma al centro della nuova comunicazione pubblica c’è non solo “il servizio” – come è scontato – ma anche l’orientamento a riequilibrare il modello di “dibattito pubblico” favorendo la pubblica utilità come tema spesso negletto.

L’intero testo è pervaso dall’idea di adeguare, aggiornare, europeizzare la comunicazione pubblica italiana. Dunque siamo in ritardo, in particolare nelle norme o nelle applicazioni?
Gli sviluppi europei della materia sono attenti alla questione del dibattito pubblico che non può essere sequestrato dai due finora maggiori contraenti: i media e la politica. Istituzioni che in Europa hanno un loro punto di identità più distinto rispetto alla politica (in Italia occupante vera e propria); imprese, che non devono raccontarsi solo commercialmente ma anche rispetto al loro environnement sociale e territoriale; la società fatta di  molte complessità organizzate (non ghettizzabili nei vari specifici, ma capaci di un “racconto pubblico” più generale), grazie alla percezione di ruolo nel processo di agenda building possono contribuire alla qualità e al pluralismo del dibattito. Ne va di una dimensione partecipativa della nostra democrazia che è il dato più chiacchierato e meno regolamentato dell’Italia contemporanea. In più si tratta di stare oggi nella “rete” in una condizione in cui la religione della persona (quella che Castells rende protagonista dell’autoproduzione di massa)faccia in conti con bisogni sociali che attendono con impazienza la trasformazione in diritti e quindi in nuove forme di rapporto con il potere. Noi siamo sfrenati nel diritto di raccontare ai nostri amici come facciamo la torta di mele  e siamo troppo indulgenti con un sistema pubblico in cui torna spesso a prevalere la cultura del segreto e del silenzio.

Ritardi, forzature, uso improprio, omissioni. Ma è tutta colpa della politica?
La politica – o per meglio dire la mala politica – ha le sue colpe. Ma in questo libro ricordo che il varo della mia esperienza avvenne in un quadro in cui la pubblica amministrazione era governata dalla filosofia del potere burocratico in cui, appunto, segreto e silenzio erano la regola aurea. In un certo senso la mia prima mission – da direttore generale 37 enne – era di andare a testa bassa contro questo immenso muro di convincimenti. Cosa che feci, sempre meno da solo e sempre più con risultati. Ma scrivendone oggi dico anche chiaramente che le amministrazioni pubbliche sono tre e ben distinte. Le prime due - quella del controllo, che padroneggia solo cultura giuridico-amministrativa, restata la più autoreferenziale; quella della gestione, che le si è opposta, con una cultura più economica, ancora in una estenuante e non risolta lotta di potere – il cittadino lo vedono assai poco. Ne parlano – come di utente o come di contribuente – ma c’è ancora poca relazione reale. Per questo che vi è una terza amministrazione, quella relazionale, costruita su una cultura delle scienze sociali (sociologi, psicologici, comunicatori, che io chiamo in generale “architetti sociali”) che rappresenta una condizione ancora di paria ma che se imparassero a fare alleanza tra loro sposterebbero – per il know how che potrebbero mettere a disposizione del sistema decisionale – un pezzo di arrugginito sistema che oggi governa molta normativa e tutta la procedura in una condizione largamente precedente quella che chiamiamo “cultura della rete”.

Cos’è che rende la comunicazione pubblica una materia “malintesa”?
Il fatto che quel potere burocratico insieme a una cultura propagandistica della classe politica (anche qui non tutta ma però ancora diffusa)ne limitano la portata, ne dimensionano in senso unilaterale e verticale le prestazioni e poi ci ricamano su facendo pure la spendig review a quelle funzioni che pur insufficienti sono in alcuni contesti anche l‘unico spazio di accesso per i cittadini vessati per cercare istruzioni per l’uso in un contesto in cui la semplificazione è stata un capitolo di molti annunci e pochisssima valutazione di rendimento. Così non è cresciuta neppure la responsabilità decisionale dei comunicatori (sette su dieci da noi fuori da ogni rapporto con l’area decisionale di amministrazioni e enti, come dire con funzioni puramente confezionatorie).


Come si prevede che incida l’evoluzione della materia in Europa, rispetto ad una maggiore armonizzazione tra i paesi membri?
L’Europa è bicefala, si sa. Quella intergovernativa sta prevalendo su quella “comunitaria” perché le gelosie nazionali restano con una domanda interna alimentata dalla demagogia, dalla crisi irrisolta e dal declino anche della qualità recente del ceto politico messo nelle rappresentanze europee. La comunicazione è largamente dentro queste gelosie. E tuttavia l’innovazione tecnologica accelera i processi. La domanda sociale – più o meno della stessa natura dappertutto – si fa sentire. Certi processi di integrazione (i giovani, i media, la conoscenza, i linguaggi, eccetera) costruiscono un nuovo fattore di spinta. Ho dedicato a questo tema il capitolo centrale del libro perché se c’è cambiamento esso passa prima di qua.

Tra Stato, Regioni ed enti locali si registrano dinamiche diverse?


Tra lo Stato che doveva fare le norme e  i Comuni che dovevano fare i servizi, le Regioni erano nate per fare la cosa più difficile: l’integratore. Il fallimento di questa funzione, trasformandone alcune in piccoli Stati e altre in grandi Comuni, ha modificato il senso della sinergia istituzionale su cui la difettosa riforma del titolo V della Costituzione ha finito per costruire più conflitti. Da dove ricominciare? Necessariamente da una riforma istituzionale su scala almeno europea. Ma ora, già da subito, con tre stimoli che possono funzionare a condizione di viaggiare su una moderna comunicazione pubblica saldata con gli interessi sociali: uno Stato votato alla “spiegazione”, un sistema regionale votato allo “sviluppo”, un quadro delle autonomie a presidio dell’ascolto del cittadino e delle imprese.

Che le tecnologie dell’informazione e della comunicazione siano determinanti è ormai un dato acquisito. Il che vuol dire che la comunicazione pubblica diventa un anello della Agenda digitale?
Oppure che l’Agenda digitale è messa al servizio della causa sociale della “spiegabilità” dell’accesso, che sono le due partite essenziali della comunicazione pubblica. Quando si coglie che il nodo che lega le cose – lo sviluppo dell’Open Data (si legga nel mio libro il botta e risposta con Luca Attias, una forte intelligenza tecnologica che opera all’interno delle istituzioni) – è all’1% delle potenzialità, si capisce che l’allarme dovrebbe essere in bocca al Presidente della Repubblica e al Capo del Governo (come succederebbe negli USA) dalla mattina alla sera.


La serrata narrazione del testo produce una snella conclusione. Cinque proposte. Con quale logica comune?
La logica è quella della sinergia istituzionale che accennavo prima. E la speranza è che il semestre di presidenza italiana dalla UE accenda la luce tra i cinque segmenti a cui quelle proposte fanno riferimento. Mi dicono che il ritardo è rilevante per la messa a punto nello specifico. Ma mantengo alcune speranze


In sostanza un libro scritto per gli studenti, per i funzionari, per la politica o per i cittadini?
E’ scritto per un’Italia smarcata dalla ventata populista e demagogica, per un’Italia smarcata dal malaffare, per un’Italia reattiva socialmente, per un’Italia che non regala il potere della comunicazione solo agli interessi di parte. Dentro ci stanno studenti, funzionari, politici, imprenditori e tantissime signore Maria. Non è un manuale e ho chiesto ai miei studenti di misurarsi su un testo di proposta. Aspetto a breve le loro recensioni. Capirò se si è riusciti a tener il contatto con gli addetti ai lavori aprendo anche il dialogo con chi accetta solo il valore aggiunto di una conoscenza spendibile nella realtà.


Maurizio Trezzi